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Andrea Morzenti

C'era una volta il Partito Democratico


Romano Prodi, il 7 febbraio scorso, disse che “al Partito Democratico serve un padre e Zingaretti può diventarlo”.

Un po’ come a dire che il Partito Democratico era ormai un partito senza padre, senza guida, visto che quello sciagurato di Matteo Renzi aveva poco considerato il partito preferendogli l’azione di governo.

Prodi, lo sappiamo tutti, è stato anche lui un padre: de L’Ulivo (1995) prima e de L’Unione (2005) poi . Un po’ il nonno del Partito Democratico, insomma.

Prodi ha sempre lavorato per allargare il più possibile il perimetro del centro(-)sinistra, da declinare - a seconda dei gusti - con o senza trattino. Con il trattino dicevano gli Unionisti, senza trattino ribattevano gli Ulivisti. Perché da quelle parti non c’è mai stata pace e si litiga(va) pure per un trattino.

Poi venne il Partito Democratico (2007), che de L’Ulivo ha conservato il ramoscello nel suo simbolo. Partito a vocazione maggioritaria, centrosinistra senza trattino, col suo leader che per Statuto è anche il candidato premier (sì, lo so, dico per semplificare, ma ci siamo capiti). Veltroni lo interpretò così, Bersani meno (ricordate Italia Bene Comune?), Renzi di più.

 

Ora il Partito Democratico, PD per gli amici, da orfano che era diventato ha ritrovato suo padre. Il padre è Nicola Zingaretti, con la benedizione papale di Prodi. Zingaretti ha dichiarato fin da subito che lui deve ricostruire il partito (distrutto dal renzismo si legge sottotraccia neppure troppo, ndr) e che è contrario alla coincidenza tra la figura del leader e quella del premier (è contrario cioè allo Statuto PD, ndr).

A me piace chiamarlo #Zingapapà.

La ricostruzione è iniziata con le liste per le elezioni europee del 26 maggio 2019.

Dentro tutti, si rimette il trattino che era stato tolto al centro-sinistra e, visto che alle europee le coalizioni elettorali non sono previste ma c’è lo sbarramento al 4%, si fa una bella lista unica: L’Unione da coalizione si è fatta lista.

Risolta la pratica con Carlo Calenda - unico caso al mondo di un dirigente di un partito che tratta col suo stesso partito per conto di un Manifesto - dando (non poco) spazio al logo di Siamo Europei (e facendo ben attenzione che il loghino del PSE sia solo dentro il logo del PD e non anche in quello di Siamo Europei) la lista unica, tra gli altri (zingarettiani, renziani, iscritti al partito e non iscritti addirittura un terzo del totale), vede la presenza:

  • arancione, di Giuliano Pisapia (leader in pectore, rimasto tale, di Mdp);

  • blu, di Irene Tinagli (ecoomista calendiana, ora Pd, ex di Scelta Civica di Mario Monti);

  • rossa, di Cecilia Guerra e Massimo Paolucci (i due candidati di Mdp - Guerra è stata capogruppo al Senato - cioè della scissione dal PD renziano, prove tecniche di ricomposizione bersanian/dalemian/speranzosa);

  • bianca, di Caterina Avanza (direttamente da En Marche di Emmanuel Macron);

  • color non so, di Pietro Bortolo (che ci ha tenuto a dichiarare, con un tweet, essere “in quota Demos”, movimento legato al volontariato cattolico).

Ora, vedremo se questo listone di #Zingapapà sarà capace di fare più del 40,81% che il Partito Democratico, quello vero a vocazione maggioritaria, ottenne alle elezioni europee del 2014…

Poi capiremo se il listone, oltre che elettorale, diverrà anche programmatico. Perché a mettersi assieme tutti si fa in fretta, a governare tutti assieme si fa più fatica.

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