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Andrea Morzenti

Causaleggiando. Tra mito e realtà


In questi giorni si discute del tagliando annuale al Dignità, com'era prevedibile dopo la vittoria della Lega e la sconfitta del Cinquestelle alle ultime Elezioni Europee.

Pare, si dice, si mormora che sarà consentito anche ai contratti collettivi aziendali (a questo punto non si capisce del perché non anche i nazionali) introdurre nuove causali per i contratti a termine, oltre quelle di Legge. Se il tagliando sarà approvato, sarà quindi possibile procedere con nuove causali nella forma “semplice” prevista dall’art. 51 del Codice dei contratti del Jobs Act, e non solo - come oggi - nella forma “arzigogolata” prevista dalla contrattazione di prossimità.

Ecco, io credo che – seppur se è sempre vero che “piuttosto che niente è meglio piuttosto” – non sia questo il giusto intervento da fare.

 

Facciamo per un attimo finta che il Decreto cosiddetto Dignità non esista (eh lo so che esiste, dai).

E partiamo da questo tweet di Antonio Carlo Scacco (@antonioscacc) “non si capisce perché in Italia ce l'hanno tutti con le causali del contratto a termine. Esistono nel Code du travail, nel diritto del lavoro tedesco (sachlich Grund), in quello spagnolo (Estatuto) […]”.

Il problema in Italia, caro Antonio, non è stata (tanto) la normativa sulle causali. Non ce l’abbiamo (solo) con quella. Ma con le svariate interpretazioni, i cavilli, i formalismi che ne sono derivati e che hanno generato un contenzioso imponente. Partiamo sì dalla (ma non fermiamoci alla) norma, dalla teoria, dal mito della causale. Ma guardiamo anche, e soprattutto, ai fatti, ai dati, alla storia, alla realtà della causale.

Restando al terzo millennio. Anno 2001, decreto legislativo n. 368, contratto a termine, “è consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Eccola, la causale del terzo millennio che, prosegue la norma, deve essere specificata sul contratto. Sembra non esserci più alcuna temporaneità, ma la giurisprudenza sul punto non fu unanime. E poi, era consentita anche in caso di ordinaria attività? Anche qui giurisprudenza in disaccordo.

Intanto i Tribunali arrivano con le prime sentenze. Una delle quali, questa sì diventata poi un mito, dice più o meno così “il datore di lavoro deve assolvere un duplice onere: specificare a monte e dimostrare a valle le ragioni dell’apposizione del termine al contratto di lavoro”.

Anno 2003, decreto legislativo n. 276, somministrazione di lavoro, “la somministrazione di lavoro a tempo determinato è ammessa a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all'ordinaria attività dell'utilizzatore”. E qui, il Legislatore delegato (che poi è lo stesso del 2001, stesso Governo Berlusconi) visti i dubbi sull'ordinaria attività, ce lo scrive a chiare lettere che è ammessa. Sul contratto a termine, il Legislatore lo scriverà solo nel 2008.

Nella somministrazione, la causale, diceva la norma del 2003, doveva essere indicata, non specificata come invece prevedeva la norma del 2001 sul contratto a termine. È uguale? È diverso? Alcune sentenze in una direzione, altre in direzione opposta. A me viene in mente quando chiedi ad un pedone se può indicarti la strada per raggiungere un ristorante e quando, invece, chiedi a Google Maps di specificarti la strada. È uguale? Beh, direi di no. Ma i Tribunali, come detto, non furono d’accordo neppure qui. E non cito le due diverse direttive comunitarie, una sul contratto a termine l'altra sul lavoro tramite agenzia, che è meglio.

Ma c’è di più. Il Legislatore delegato del 2003, timoroso e preoccupato delle svariate possibili interpretazioni sulla causale, tentò di dire che “ai fini della valutazione delle ragioni […] che consentono la somministrazione di lavoro il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento della esistenza delle ragioni che la giustificano e non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano all'utilizzatore”. In molte sentenze, risultò un tentativo vano.

Naturalmente non poteva mancare - e non mancò - la Corte Costituzionale che, nel 2009, ci tenne a precisare che l’onere di specificazione della causale (quello a monte), in caso di ragioni sostitutive, viene assolto con l’indicazione sia del nominativo del lavoratore assente, che del motivo dell’assenza. Tutti e due, nominativo e motivo. Perché scrivere “sostituzione Maria Rossi” non va bene, bisogna scrivere “sostituzione Maria Rossi assente per maternità” (così poi se Maria dopo la maternità "prende" ferie, il contratto di chi la sostituisce non può più proseguire perché cambia il motivo dell'assenza). Il Garante Privacy non fu così d’accordo e disse che al posto del nominativo doveva scriversi un codice alfanumerico univoco identificativo dell’assente.

L’aspetto più curioso della vicenda fu che la Consulta stabilì questo principio in via incidentale, perché nessuno glielo aveva chiesto. La materia del contendere fu infatti la costituzionalità di non ricordo più cosa, ma non certo di come doveva essere specificata la causale sostitutiva. Ma il boccone era ghiotto...

La Cassazione dovette però correre ai ripari consentendo alla realtà aziendali complesse di specificare la causale sostitutiva, fermo – ma un po’ ballerino – il principio enunciato dalla Consulta, anche solo con un “sostituzione portalettere assenti per la fruizione delle ferie estive programmate”. Altrimenti diventava un problema l’assunzione di centinaia di postini d’estate.

Vedi, caro Antonio, la paura delle causali – come la chiami tu – non deriva tanto dalla paura di non avere una causale. Un datore che assumeva a termine, una ragione di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo ce l’aveva sempre, come l’ha ancora anche oggi. Altrimenti perché assume? La paura deriva invece, ad esempio, dal capire se doveva essere solo temporanea, se poteva essere anche riferita alla sua ordinaria attività. Ma, soprattutto, il problema era come scriverla, come specificarla o anche solo come indicarla sui contratti.

Ad esempio, se la ragione produttiva era un incremento della produzione derivante da una commessa ricevuta da un cliente russo, cosa andava scritto sui contratti? Era sufficiente scrivere dell’incremento di produzione del prodotto richiesto dai russi? Oppure anche il numero di commessa che aveva generato l’incremento? E magari anche la data entro cui l’oggetto della commessa doveva essere prodotto? E se, mentre si lavorava la commessa dalla Russia entrava anche una commessa dal Giappone, il lavoratore poteva lavorare anche su questa nuova commessa giapponese o solo su quella russa?

Incertezze, dubbi, diverse letture e diverse interpretazioni.

E avvocati che, come mi ricorda sempre un amico, sono più nel solo Foro di Napoli che in tutta la Francia.

Ed eccoci alla fine del primo decennio del terzo millennio. Lehman Brothers. Viene giù tutto. Negli Stati Uniti, in Europa, in Italia. Molti contratti a termine non vengono rinnovati e le trasformazioni a tempo indeterminato si interrompono. E il contenzioso, che già era presente, ora esplode. Le sentenze, che dai Tribunali passano man mano alle Corti d’Appello, restano alternanti, in una direzione alcune e in direzione opposta altre. A motivo della massima discrezionalità che le norme assegnavano ai Giudici.

Ci fu un caso, in particolare, passato alle cronache. Nel Nord Est lavoravano congiuntamente, quasi come fossero in catena di montaggio, un sindacato - o presunto tale - e uno studio legale. Sempre le cronache raccontano che, i due, lavoravano addirittura nello stesso ufficio. E avevano pure lo stesso acronimo e pure lo stesso brand. Il primo faceva proselitismo che il secondo non poteva fare. Dopo la prima lettera del primo, il secondo faceva le cause di lavoro che il primo non poteva fare. Raccontano i ben informati che l’avvocato ora ha una barca nuova, più bella e lunga di quella che aveva prima. Si dice che spesso i lavoratori assistiti dal duo abbiano accettato transazioni anche per poco, compromettendo forse la possibilità di trovare un altro lavoro in futuro.

Ecco perché, caro Antonio, come scrivi tu le causali fanno paura. Bloccano aziende che in un mercato globalizzato necessitano (anche) di flessibilità semplice e sicura. E neppure raggiungono lo scopo che ritengono alcuni commentatori, la tutela del lavoratore.

Quindi io ritengo che il tagliando al Dignità, se sarà, debba andare in una direzione diversa da quella di cui si legge in questi giorni. E a mio parere la direzione non può che essere quella di togliere le causali del decreto cosiddetto dignità, non di aggiungerne di nuove. E lo dico, convintamente, non sulla base di mere teorie o di impraticabili paragoni con altri Paesi, ma sulla base di quello che ho provato a scrivere nelle righe sopra.

Manteniamo l’attuale limitazione sulla durata massima della successione di più contratti a termine a 24 mesi (i 36 mesi del Jobs Act avevano una logica in un momento storico diverso), ma senza consentirne più la derogabilità da parte dei contratti collettivi. Salvando solo l’eccezione – permettetemi – delle Agenzie per il Lavoro (il cui contratto collettivo appena rinnovato ha elevato la durata massima, in caso di diversi utilizzatori, a 48 mesi) viste le diverse (e pure ovvie, anche se non per tutti) finalità rispetto ad un datore di lavoro “ordinario”. Così facendo avremmo un limite oggettivo, non interpretabile, nel rispetto della direttiva comunitaria sul contratto a termine.

E, caro Antonio, non dire che il decreto cosiddetto dignità, nel primo trimestre del 2019, ha favorito l’aumento delle trasformazioni a tempo indeterminato. Perché queste stabilizzazioni, lo sappiamo tutti, sono la coda del regime transitorio che – in sostanza – ha differito l’entrata in vigore delle nuove norme al 1 novembre 2018.

Sai quante proroghe sono state fatte entro quella data e, quindi, quanti contratti a termine sono stati allungati ancora in vigenza delle vecchie norme in regime di acausalità? Contratti di durata tale da permettere poi, in molti casi, una stabilizzazione, non un turnover a 12 mesi che genererà, purtroppo per molti lavoratori, il decreto cosiddetto dignità.

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