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Decreto dignità ante litteram

  • Andrea Morzenti
  • 7 ott 2019
  • Tempo di lettura: 2 min

Prima del decreto dignità delle causali impossibili, ci fu la primavera della acausalità.

Era il 21 marzo 2014 e il decreto Poletti (poi recepito nel Jobs Act) disse che l’unica condizione da rispettare per assumere a termine un lavoratore era la durata massima. Trentasei mesi, singolo contratto e somma di più contratti, punto. Rispettati poi l’interruzione di legge (dieci o venti giorni) tra un contratto e l’altro, il numero massimo delle proroghe (cinque) e il limite percentuale sui tempi indeterminati (20%), non c’era più nulla da verificare. Il contratto a termine era legittimo.

 

Succede allora che un’azienda assume a termine un lavoratore dal 11 febbraio 2015 al 30 giugno 2016 (con cinque proroghe). Poi lo riassume dal 12 ottobre 2016 al 31 gennaio 2017 (nessuna proroga). Una normale e semplice successione di due contratti a termine.

Succede che il lavoratore fa causa all'azienda che l’ha assunto.

E succede che il lavoratore vince la causa. Il suo contratto a termine viene così convertito a tempo indeterminato e l’azienda, in aggiunta, è condannata a pagare al lavoratore un indennizzo pari a dieci mensilità.

Siamo a Firenze, la città del Presidente di quel Consiglio dei Ministri che approvò il decreto Poletti, Tribunale Sezione Lavoro, sentenza di primo grado n. 794/2019 pubblicata il 26 settembre 2019, Giudice dott.ssa Anita Maria Brigida Davia.

Aspetta. Durata massima, interruzione tra il primo e il secondo contratto, numero massimo di proroghe, limite percentuali, tutto rispettato. Sono due contratti, durata complessiva meno di ventun mesi, più di tre mesi di interruzione tra il primo e il secondo contratto, cinque proroghe in totale. Limiti percentuali, dice la sentenza, rispettati. Cosa è successo?

È successo, ha sentenziato il Giudice, che la successione di quei due contratti è nulla perché quei due contratti sono stati stipulati per soddisfare esigenze stabili e durevoli.

Il Giudice dice infatti che, “in ossequio agli inderogabili principi comunitari” (Direttiva e Sentenze della Corte di Giustizia UE citate nella sentenza), il decreto Poletti/Jobs Act deve essere così interpretato:

  1. Le esigenze stabili e durevoli di occupazione devono essere soddisfatte esclusivamente con contratti di lavoro a tempo indeterminato (che costituisce la forma comune del rapporto di lavoro, dice decreto Poletti/Jobs Act);

  2. Quindi, in caso di esigenze stabili e durevoli, è vietato l’utilizzo dei contratti a termine;

  3. La sottoscrizione di uno o più contratti a termine per soddisfare esigenze stabili e durevoli è pertanto un abuso in violazione di tale divieto;

  4. Di conseguenza l’abuso comporta la nullità dell’apposizione del termine ai contratti di lavoro (art. 1418 codice civile, frode alla legge);

  5. L’onere della prova dell’abuso è a carico del lavoratore.

Il lavoratore ricorrente, nel caso specifico, ha provato l’abuso e quindi deve essere assunto a tempo indeterminato. Così è deciso, l’udienza è tolta.

Che dire? Estremizzando, ma neanche più di tanto, possiamo forse dire che il contratto a termine, secondo il Giudice del lavoro di Firenze, è legittimo solo per esigenze sostitutive o per attività stagionali? E per pochi altri casi, che si contano sulle dita di una mano, di incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell'attività ordinaria oppure per esigenze temporanee e oggettive estranee all'ordinaria attività? No, dai, queste stanno nel decreto dignità.

Vedremo cosa accadrà in appello.

[ah, la sentenza esiste davvero. la potete scaricare cliccando qui

dal sito degli Avvocati Giuslavoristi Italiani]

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