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  • Andrea Morzenti

Se per rioccupare bastasse un contratto



Una volta si diceva ricollocare, ora il Ministro Orlando pare preferisca dire rioccupare.

Può essere sia nato pressappoco così il contratto di rioccupazione, la novità giuslavoristica forse più rilevante, se si esclude il ping-pong sul divieto di licenziamenti, del decreto sostegni bis (o “due”, che ora non ricordo).


Vi lascio immaginare le altre novità, che già qui (provo a spiegare nel dialogo sotto) la montagna pare abbia partorito un topolino.

 

- Scusa, ma da quando si può utilizzare?

- In via del tutto eccezionale (veramente), dal 1 luglio 2021.

- Ah, non da subito? Ma non sta in un decreto legge (DL n. 73/2021, art. 41)? E il rispetto dei requisiti costituzionali di “straordinaria necessità e(d) urgenza”?

- Ancora con sta storia? Eddai, va così da anni. Ormai è il Governo che legifera, in nome e per conto del Parlamento. Poi la Commissione Parlamentare competente, di Camera o Senato che dipende da dove inizia l’iter di conversione in legge del decreto, emenda qua e là e via andare. Qui, tra l’altro, tutto è subordinato pure a un preventivo ok dell’Europa…

- E fino a quando si potrà utilizzare questo contratto di rioccupazione?

- Fino al 31 ottobre 2021, non un giorno di più!


- Vabbè dai, quattro mesi… Ma in cosa consiste? Me lo dici in due parole?

- Allora: è un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, non per tutti, finalizzato a rioccupare solo chi si trova in stato di disoccupazione. Insomma, l’obiettivo è aiutare a trovare lavoro a chi, ahimè, lo ha perso a causa della pandemia.

- Ma, scusa, non c’è il divieto di licenziamenti?

- Eh già (qui il discorso si farebbe serio e complesso, prima o poi lo affronterò)…


- Ok… Ma non credo sia un normale contratto a tempo indeterminato, dai!

- Infatti. Innanzitutto, serve un progetto individuale di inserimento (non chiedermi cosa sia, che ancora non l’ho capito) della durata di sei mesi. Al termine di questi sei mesi, una sorta di durata minima garantita (per alcuni un periodo di prova lungo), le parti possono recedere liberamente con preavviso (licenziamento, per capirci, che dimissioni mi pare poco probabile). Se nessuno recede (cioè se il datore non licenzia) il rapporto prosegue come un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.


- E poi, dai questo l’ho letto pure io, in quei sei mesi il datore di lavoro ha una riduzione del costo del lavoro. Giusto?

- Sì, sì, giusto. Si chiama “esonero contributivo”. In sostanza non paga i contributi all’Inps per un massimo di 500 euro al mese.

- Quindi, risparmio massimo di 3.000 euro.

- Giusto, che la matematica non è un’opinione. Importo che il datore di lavoro deve comunque restituire se licenzia il lavoratore al termine dei sei mesi (ma anche se licenzia per motivi economici qualcun altro, stesso livello/categoria legale e stessa unità produttiva, nei sei mesi successivi l’assunzione del lavoratore rioccupato).

- Leggevo, poi, che anche questo esonero deve essere computo nel… non ricordo più cosa.

- Sì, assieme a tutti gli altri esoneri ed incentivi legati a questa brutta pandemia (decontribuzione sud, esonero donne, esonero under 36) deve essere computato nel tetto massimo di 1,8 milioni di euro.


- Ma, scusa domanda stupida, non era forse meglio un esonero contributivo più sostanzioso e semplice per chi assume chiunque a tempo indeterminato, unito a una semplificazione dei contratti a termine?

- Eh già, ma quello lo fece un altro governo. Dove c’era sempre Andrea Orlando, ma stava alla Giustizia e non al Lavoro.

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