Il Jobs Act del governo Renzi si era prefisso tre obiettivi per il nostro Diritto e Mercato del Lavoro: i) semplificazione normativa ii) certezza delle regole e iii) riduzione del contenzioso.
Come? Intervenendo su:
mutamento di mansioni (sparisce il concetto di equivalenza che aveva generato tomi e tomi di dottrina e paginate di sentenze)
collaborazioni (sparisce il contratto a progetto, genere letterario che aveva appassionato i cultori della materia e generato un notevole contenzioso)
contratto a termine e somministrazione di lavoro (si eliminano le causali, altro genere letterario di rilevanza mondiale e causa di un contenzioso imponente, sostituite da limiti più oggettivi di durata e di contingentamento numerico)
conseguenze dei licenziamenti illegittimi (con il contratto a tutele crescenti si porta a compimento la riforma dell’art. 18 operata con la Riforma Fornero stabilendo in modo più chiaro che la regola è l’indennizzo economico e la reintegra sul posto di lavoro è una residuale eccezione, si introduce un automatismo legato all'anzianità per determinare il quantum dell’indennizzo, si introduce la possibilità di una conciliazione “esentutto”).
E poi, riformando i controlli a distanza (se derivano da strumenti di lavoro o di controllo accessi o presenze non serve alcun accordo sindacale o autorizzazione dell’Ispettorato, fermo il rispetto della privacy dei lavoratori e una informativa specifica a loro favore).
E riducendo l’intervento della integrazione salariale straordinaria (eliminandola, ad esempio, in caso di cessazione di attività), puntando invece ad un rafforzamento delle politiche attive del lavoro (con la costituzione di un’agenzia nazionale, l’ANPAL, e con l’introduzione dell’assegno di ricollocazione).
Quali gli effetti del Jobs Act? Gli obiettivi che ho scritto sopra sono stati, almeno in parte, raggiunti?
Come spesso accade su queste tematiche, invase ahimè da una ideologia difficile da superare, ognuno tendenzialmente mantiene le proprie opinioni, anche se i dati iniziavano a consolidarsi e qualche esame oggettivo si poteva iniziare a fare.
Ma, le riforme del lavoro in Italia, si sa, durano il tempo di una Legislatura. Impossibile così poterne monitorare seriamente gli impatti e, se necessario, apportarne i relativi correttivi.
Senza entrare nel merito delle politiche attive, il cui tentativo di rafforzamento ha immediatamente scontato gli effetti negativi della bocciatura della riforma costituzionale con la vittoria del No al referendum del 4 dicembre 2016 (riforma che, se approvata, avrebbe spostato la competenza allo Stato, oggi invece ancora appannaggio di Regioni e Province) e che continua a scontare un retaggio culturale difficile da superare nel Bel Paese del Reddito di Cittadinanza, possiamo dire che, man mano, il Jobs Act è stato (o sta per essere) smantellato.
Da chi? Dalla Politica gialloverde e dalla Magistratura.
La Politica innanzitutto.
Il Governo Conte, come noto, con il decreto cosiddetto dignità, ha reintrodotto le causali per il contratto a termine, tanto diretto quanto in somministrazione (equiparazione questa che desta più di un sospetto di violazione della direttiva comunitaria sul lavoro tramite agenzia).
Torna così il genere letterario della causale, ma ancora più complesso e articolato del precedente. Ora, infatti, chi si dovrà cimentare nella scrittura, dovrà sempre riempire il suo scritto dando un senso compiuto a tre aggettivi i) temporaneo ii) significativo e iii) non programmabile che, prima, del Jobs Act, l’autore – suo malgrado – del genere letterario non aveva.
E poi la Magistratura.
I giudici del lavoro, convinti di essere stati ridotti ad una calcolatrice [= anni di servizio*2, con un minimo di 4(6) e un massimo di 24 (36), vedi mio precedente post], alla prima occasione utile, hanno mandato il contratto a tutele crescenti alla Corte Costituzionale per un suo esame di costituzionalità.
La Consulta ha chiarito, forse una volta per tutte, che l’indennizzo economico è una misura legittima, al pari della reintegra sul posto di lavoro, che ristora il lavoratore dai danni e dalle conseguenze da lui subiti a seguito di un licenziamento illegittimo. Sta al Legislatore scegliere una delle due misure.
Ma non mai è possibile, è incostituzionale perché in contrasto coi principi di ragionevolezza e uguaglianza, imporre ai giudici il rigido criterio della sola anzianità di servizio per determinare l’importo dell’indennizzo. Passi per un minimo e un massimo. Ma, dentro una "forbice di legge", il giudice deve essere libero di poter decidere il quantum. Il Legislatore potrà dare al giudice dei parametri generici, ma guai a imporgli un automatismo. Con buona pace della certezza.
Ed ecco così smantellato il contratto a tutele crescenti, che prevede(va) appunto un “indennizzo certo e crescente con la (sola) anzianità di servizio”. E, in una sorta di eterogenesi dei fini, oggi abbiamo un articolo 18 con un massimo di 24 mensilità di indennizzo, e un contratto a tutele crescenti, post decreto cosiddetto dignità, con un massimo di 36 mensilità di indennizzo.
Politica e Magistratura stanno così smantellando il Jobs Act.
Semplificazione, certezza, meno contenzioso, non piacciono a tutti, a quanto pare.
Il dado è tratto. Quale sarà la prossima misura del Jobs Act che salterà? Tutti si attendono il ritorno della integrazione salariale straordinaria per cessazione di attività, già annunciata dal Ministro Di Maio a completamento della abolizione della povertà già avvenuta (e dopo aver già concesso la dignità per decreto, ma la mezz'ora gratis di internet al giorno, perché ancora non si vede? Sorry, scusate la divagazione...).
Ma al Governo gialloverde, si sa, sono creativi. Con la flat tax per gli autonomi, potrebbe prima arrivare una reintroduzione del contratto a progetto? Dopo il ritorno del genere letterario della causale, avremo una doppietta degna di nota.
A presto, dal balcone di (Palazzo) Chigi.