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  • Andrea Morzenti

Si usa ancora dire Réclame nell'epoca dei social network?


Ricordate Gianfranco Funari quando, nelle sue trasmissioni televisive, annunciava: “Réclame!”?

Lo faceva per lanciare la pubblicità che lui riteneva quasi sacra. E lo diceva in modo chiaro, la trasmissione si interrompe, ritorna fra un po’, appunto dopo la pubblicità.

Erano gli anni in cui divenne obbligatorio, in tv, scrivere la parolina “pubblicità” durante gli spot pubblicitari. Perché sentire Nino Castelnuovo dirci “Olio Cuore: mangiar bene per sentirsi in forma”, era sì rassicurante ma era anche importante sapere che ce lo diceva perché, passatemi la semplificazione, pagato per dircelo.

La pubblicità è l’anima del commercio. Ma quando la si fa, va detto.

 

Nei tempi dei social network il tema, di fondo, non dovrebbe cambiare. Vuoi pubblicizzare un bagnoschiuma o un succo di frutta? Nessun problema, basta che lo dici.

Anzi, sui social network il tema forse è ancor più delicato che in tv o sulla stampa in genere. Perché i vari influencer di turno (Chiara Ferragni docet) hanno innanzitutto una rete di followers, che dell’influencer si fidano. Si fidano e si lasciano, appunto, influenzare. E fin quando il messaggio è naturale e genuino (sono stato in un ristorante che fa un risotto alla milanese fantastico, ve lo consiglio) no problem. Quando invece il messaggio è promosso (il ristorante offre pranzo e cena, risotto alla milanese e ossobuco) allora va detto ai followers.

Non lo dico io eh, ma l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm) - l’Antitrust - che, nel luglio 2017, iniziò con l’inviare una lettera di moral suasion agli influencer più… influenti. Dovete scrivere #advertising o #pubblicità. Cara Ferragni – disse poi l’Antitrust – le abbreviazioni, come #ad, non vanno bene.

È un tema, questo, che mi sta molto a cuore. Gli influencer possono davvero generare affidamento e quindi portare a situazioni difficili e complesse. Ricordo, pochi mesi fa, di aver letto di una bambina che, se non erro in Rinascente, disse alla mamma che doveva assolutamente avere una tal borsa perché l’aveva la sua influencer preferita, che l’aveva postato su Instagram, non poteva non averla. Era molto cara e la mamma le spiegò che non era possibile, con la conseguenza che la bambina disse alla mamma di non volerle più bene (mi rendo conto, l’ho un po’ semplificata, ma il tema è anche questo).

È aspetto questo che va studiato e approfondito con attenzione, prima o poi qualcuno più bravo, più esperto di me sui social e influencer, conto ci scriverà un bel post.

Io oggi volevo solo accennare un altro tema. Certo molto meno impattante e meno significativo della pubblicità (occulta) degli influencer. Ma che un pochino di attinenza ce l’ha.

Lo volevo scrivere qui per, se riuscirò, lanciare una discussione.

Mi riferisco ai giornali, ai loro giornalisti, che (ad esempio) su Twitter promuovono loro articoli, loro pezzi, a pagamento. Ma che nel tweet non lo dicono. Tu leggi il tweet, l’argomento solo accennato ti interessa, ci clicchi su e atterri sull'articolo, salvo poi scoprire che è a pagamento.

Io, lo scrivo da un po’, credo sarebbe certo più trasparente ma anche più corretto (non ho approfondito il tema dal punto di vista normativo) che già il tweet lo riporti espressamente. Nessun problema, la pubblicità è l’anima del commercio, anche per i giornali online, ma Funari direbbe “Réclame” anche qui, no?

Ne ho discusso nei giorni scorsi con Mattia Feltri, autore del Buongiorno su La Stampa (un pezzo da incorniciare, il suo di sabato 13 ottobre 2018, “Un patto sacro”, che ho poi letto comprando l’edizione cartacea).

Qui sotto il suo ultimo tweet (click sull'immagine per leggere il thread). Chissà, magari trovo qualcuno che la pensa come me...


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