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  • Andrea Morzenti

Art. 18. Forte come il tuono, ma buono?


L’articolo 18 rappresenta(va) un unicum tutto italiano, un po’ come il bicameralismo paritario. È l’articolo simbolo dello Statuto dei Lavoratori.

Era il 1970, l’anno di Italia Germania 4 a 3, e la sanzione per i licenziamenti illegittimi divenne la reintegrazione sul posto di lavoro. Ma solo per le imprese sopra i 15 dipendenti, perché per le piccole imprese la sanzione rimase l’indennizzo economico tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità.

Su questa disparità di trattamento si potrebbe discutere a lungo. Di certo possiamo dire che l’art. 18 divenne una bandiera ideologica per alcuni, un limite ingiustificato alla crescita delle imprese italiane per altri.

 

Nel 2002 il Governo BERLUSCONI, Ministro del Lavoro era Roberto Maroni, ottenne la delega dal Parlamento per un congelamento dell’art. 18. L’idea era di quattro anni di sospensione per i contratti a termine trasformati a tempo indeterminato e per le imprese che intendevano superare la soglia dei 15 dipendenti. Poi Sergio Cofferati riempì il Circo Massimo a Roma con 3 milioni di persone. E così non se ne fece più nulla.

Ma l’unicum italiano continuò a far discutere. In Italia e in Europa. Nel 2011 la BCE ce lo scrisse nella ormai famosa lettera (eh sì, l’Europa ci scrive spesso e continua anche ai giorni nostri, il problema è che oggi il Governo di Totò e Peppino non sa cosa rispondere). A Palazzo Chigi c’era sempre lui, Silvio BERLUSCONI, Ministro del Lavoro era Maurizio Sacconi. Il Cavaliere non se la sentì proprio di forzare la mano e, nell'art. 8 del Decreto Legge 138 in auge ai giorni nostri quale antidoto (chissà) al Decreto Dignità, disse ai sindacati e imprese: fate voi, se volete potete derogare (anche) all'art. 18. Naturalmente, come era ovvio, nessuno fece nulla.

Un anno dopo, però, ci fu la prima vera spallata. Governo MONTI, Ministro del Lavoro era Elsa Fornero. Ricordo Mario Monti che chiese al Parlamento di approvare in fretta la riforma dell’art. 18 che doveva portarla, come risultato tangibile, in Europa. E così fu fatto. Ma - c’è sempre un ma - il Governo di Mario Monti aveva una maggioranza un filo variegata. Veniva chiamata ABC, non perché elementare o un abbecedario, ma in base ai cognomi dei soci di maggioranza, il trio Alfano Bersani Casini.

E sì, perché la modifica all'art. 18 del 1970 fu approvata anche da Pierluigi Bersani nel 2012. Che però, dopo un confronto coi suoi tecnici, chiese e ottenne due paletti: ok al superamento della reintegrazione sul posto di lavoro sempre e comunque, ma mai e poi mai (in particolare) i) in caso di insussistenza del fatto contestato, nel licenziamento disciplinare e ii) in caso di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Fu quindi B, con la collaborazione di A e C, a regalarci le discussioni circa le differenze tra fatto (solo) materiale o fatto (anche) giuridico e tra la (sola) insussistenza o la (addirittura) manifesta insussistenza (sob!). Con buona pace dei Giudici del lavoro, che continuarono a esercitare indisturbati la loro discrezionalità.

Ed eccoci al Jobs Act, anno 2015, del Governo RENZI, Ministro del Lavoro era Giuliano Poletti. Ai nuovi assunti niente art. 18 ma, il contratto a tutele crescenti. In realtà nient’altro che una continuazione di quanto fecero ABC. Ma nei licenziamenti disciplinari il fatto insussistente divenne materiale e in quelli per giustificato motivo oggettivo l’insussistenza è o non è, non conta se è manifesta. Insomma, via i due paletti di Bersani (dite se la prese per questo? Non ci avevo mai pensato).

E siamo ai giorni nostri, alla Sentenza della Corte di CASSAZIONE n. 12174 del 8 maggio 2019. Lavoratrice licenziata per aver abbandonato il posto di lavoro, la lavoratrice ammette il fatto, l’abbandono è avvenuto in orario di lavoro, i giudici di merito (primo grado e appello) hanno ritenuto il fatto non così grave da legittimare il licenziamento, condannando l’impresa all'indennizzo economico. Non alla reintegrazione sul posto di lavoro, visto che il fatto materiale (abbandono del posto di lavoro, in orario di lavoro) è stato verificato sussistente.

Ma la Cassazione non ci sta, e dice che l'aver aggiunto, da parte del Legislatore (delegato), l'aggettivo “materiale” dopo "fatto" non cambia nulla. Sul punto, dice sempre la Cassazione, il contratto a tutele crescenti è come l’art. 18, nulla di diverso: il giudice deve verificare se il fatto sia anche giuridico, abbia cioè un qualche rilievo disciplinare. E quindi cassa tutto, e rimanda in appello.

Mi rimetto alle parole di Pietro Ichino. La Cassazione enuncia «una massima di diritto in linea generale condivisibile, ma applicandola a un caso cui la massima non si attaglia; e finisce così col collocarsi in linea di continuità con l’orientamento giurisprudenziale che il legislatore del 2015 ha inteso esplicitamente e inequivocabilmente contrastare: quello, cioè, tendente a erodere la portata della riforma dei licenziamenti, reintroducendo la reintegrazione in un’area nella quale la riforma del 2012 aveva inteso sostituirla con l’indennizzo. Si conferma così il disallineamento, su questo punto delicato, di una parte della giurisprudenza rispetto alla legge vigente. Nella motivazione della sentenza n. 12174 si parla, a questo proposito, di “interpretazione della legge costituzionalmente orientata”; ma quando il testo legislativo è, come in questo caso, univoco nel suo contenuto, il giudice ordinario, se lo ritiene in contrasto con la Costituzione, non può disapplicarlo: ha il dovere di sollevare la questione davanti alla Corte costituzionale». [passaggio tratto da "La Cassazione e il Jobs Act", di Pietro Ichino, pubblicato su lavoce.info il 24 maggio 2019]

Insomma, con parole mie: la discrezionalità i nostri Giudici del lavoro non la mollano, anzi la rivendicano con forza prendendo subito la palla al balzo, alla prima occasione utile nonostante "non si attaglia", anche se il Legislatore dice, ha scritto e chiede loro altro.

Ma, mi chiedo, con il combinato disposto di Dignità (il minimo passa da 4 a 6 mensilità, il massimo da 24 a 36) e Consulta (nessun automatismo legato alla sola anzianità, ma discrezionalità – eccoci ancora qui – del Giudice nello scegliere tra un minimo e un massimo) il lavoratore per casi analoghi a quello di Cass. n. 12174/2019, non otterrebbe un ristoro adeguato con 36 mensilità?

Cofferati, Bersani, Giudici del lavoro. L’articolo 18 (leggasi “reintegrazione sul posto di lavoro, sempre e comunque”) è una bandiera ideologica. Da tenere sempre ben piantata: nelle piazze, nella legge, nelle sentenze.

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