Si è respirato un bel clima durante la terza sessione del “Corso di Aggiornamento in Diritto del Lavoro”, giunto alla diciassettesima edizione, quest’anno in ricordo del Prof. Tommaso Germano. Io non ho avuto il piacere di conoscerlo, ma dalle parole dell’organizzatore e di tutti gli altri relatori si percepiva fortemente la mancanza di chi è stato per tutti loro un Maestro e una guida, “che nelle precedenti edizioni del Corso, quando si teneva qui nelle Aule della nostra Università di Foggia, sedeva sempre in prima fila e ti guardava durante l’esposizione della relazione, dandoti con gli occhi il suo assenso o le sue osservazioni”.
Io mi porto a casa questa sua frase, ricordata da chi è stato suo Assistente in Diritto del Lavoro: “Butta i libri, sei tu che devi saper leggere le leggi”.
La sessione del Corso era incentrata sulle “Riforme che cambiano il lavoro alla luce degli interventi emergenziali”. Si è parlato di smartworking, licenziamenti, somministrazione di lavoro, contratto a tempo determinato. Ma si è avuta la possibilità di spaziare anche su aspetti lavoristici distanti, per fortuna, dall’emergenza sanitaria che stiamo vivendo e ci sta purtroppo assorbendo un po' tutti.
È stata citata una recente sentenza del Tribunale di Udine (la n. 106 del 30 settembre 2020) con cui è si è affermato che il lavoratore “dimissionario a voce”, che non aveva seguito la procedura obbligatoria delle dimissioni online e che con assenze continue ingiustificate aveva costretto il datore di lavoro a procedere con il licenziamento per giusta causa, è tenuto a restituire a quest'ultimo la somma da lui versata all’INPS a titolo di ticket di licenziamento per ingresso alla NASpI e pari a € 1.469).
Già, sentenza sicuramente interessante. L’avevo intercettata anch’io e mi aveva incuriosito, visti i casi simili che si presentano con lavoratori che – spesso consigliati dai loro “consulenti caffiani” – non si dimettono, altrimenti perderebbero la NASpI, attendendo invece il loro licenziamento per assenza protratta. Con conseguente aggravio economico per il datore di lavoro e per le casse delle Stato chiamate a coprire una disoccupazione non certo involontaria. Ho così approfondito e visto che la decisione del Tribunale si basa sull’accertamento, avvenuto nel corso del giudizio “della provenienza della volontà risolutiva del rapporto di lavoro” da parte del lavoratore.
Poi, ho buttato i libri e mi sono a messo a leggere la legge 10 dicembre 2014, n. 183. La ricordate? È una legge delega, la mamma di tutto il Jobs Act. Quella con cui il Parlamento, dopo un lungo confronto comprese furiose litigate nelle Commissioni Lavoro, ha delegato il Governo Renzi (oggi corridore sotto l’acqua di Firenze ma con il suo media manager che twitta da Roma e così via agli insulti), tra l’altro, a:
Articolo 1
[…]
5. Allo scopo di conseguire obiettivi di semplificazione e razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro […], il Governo è delegato ad adottare […] uno o più decreti legislativi contenenti disposizioni di semplificazione e razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese.
6. Nell'esercizio della delega di cui al comma 5 il Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi:
[…]
g) previsione di modalità semplificate per garantire data certa nonché' l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore;
Ecco, ricordavo bene, era tutto scritto. Bastava leggere la legge. Il comportamento concludente del lavoratore di volersi dimettere può sostituire ed equivale alla modalità semplificata per garantire data certa e autenticità delle dimissioni. Con la differenza che il comportamento concludente (ad esempio l’assenza protratta ingiustificata quale “volontà risolutiva del rapporto di lavoro”, cit. Tribunale Udine) non è stato normato nei successivi, necessari, decreti legislativi, mentre la modalità semplificata sì, con la procedura di dimissioni online.
Quindi, il comportamento concludente, è lettera morta.
Mi chiedo perché, e credo di sapere anche la risposta. E intanto, con Udine a fare da mosca bianca, i datori di lavoro e l’INPS pagano.
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