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La spiumatura della tiffa

Andrea Morzenti

Lo confesso. Anche questa volta – come ogni volta che mi imbatto nello studio delle norme sulle attività stagionali – sono dovuto andare a cercare cos'è la tiffa. Leggo che “per la cronaca, si tratta di quelle simpatiche infiorescenze palustri simili a un hot dog infilato su uno stecco che le nostre nonne mettevano nei vasi di fiori a mo’ di decorazione”.

Perché la spiumatura della tiffa, come la sgusciatura delle mandorle, la scuotitura, raccolta e sgranatura delle pine, la lavorazione del falasco e del sommaco, la smorzatura del sughero (e via via) sono attività stagionali ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 152.


Chi si occupa anche solo un po’ di diritto del lavoro sa che le norme sul contratto di lavoro a tempo determinato prevedono per le attività stagionali numerose deroghe alla disciplina ordinaria, in base all’assunto che tali attività sono indiscutibilmente a termine. Non c’è obbligo di causale oltre i dodici mesi, non c’è obbligo del cosiddetto stop&go tra un contratto e il successivo, non ci sono limiti quantitativi da rispettare, non c’è alcuna durata massima (i famosi 24 mesi) alla successione di più contratti, non è previsto – salvo eccezioni – il contributo addizionale Inps.

Insomma, un contratto a termine più semplice, (quasi sempre) meno costoso e decisamente più flessibile rispetto a tutti gli altri.


La legge (il decreto legislativo n. 81/2015) dice che le attività stagionali sono individuate:

  1. con decreto del Ministero del lavoro;

  2. nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi.

E, dice sempre la legge, che - e mi collego finalmente alla tiffa - fino all’adozione del decreto ministeriale (tuttora ancora non pervenuto) continuano a trovare applicazione le disposizioni del DPR n. 152 del 1963. Anno in cui, lo si studia credo alle elementari (pardon, alla scuola primaria), l’Italia era ben diversa da quella del 2024 e la tiffa era (forse) conosciuta da tutti.


Data quindi l’inerzia pluriennale del Ministero del Lavoro sono stati i contratti collettivi che, in applicazione della delega legislativa, han provato ad allargare un po’ le maglie strette del datato DPR del 1963. E l’hanno fatto andando oltre la classica stagionalità legata alle stagioni climatiche introducendo ipotesi quali, ad esempio, le “attività organizzate per fare fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno”.

Ma come spesso accade, ecco che intervengono i giudici che cassano (spesso) queste aperture da parte dei contratti collettivi. Le stagioni sono quattro, quelle climatiche, si dice nei tribunali. E le attività stagionali devono seguire le stagioni, altrimenti non si chiamerebbero così (semplifico).


Per dirimere la questione, la diatriba tra legge/contratto collettivo vs giudici, prova ora a intervenire il ddl lavoro (approvato in prima lettura alla Camera e ora in discussione al Senato). E lo fa introducendo una norma di interpretazione autentica, valevole anche per i contratti collettivi già stipulati, che prevede come la stagionalità non sia necessariamente legata alle stagioni climatiche ma può, ad esempio, essere correlata anche a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno. Se lo dicono i contratti collettivi, è stagionale punto.


Questa norma (la trovate all’art. 11 del ddl lavoro, rubricato “Norma di interpretazione autentica dell’articolo 21, comma 2, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, in materia di attività stagionali) è fin da subito stata oggetto di molte critiche. Dicono infatti gli oppositori che liberalizzerebbe oltremodo i contratti a tempo determinato favorendo il precariato (anche qui semplifico). Però, dico io agli oppositori, che un filtro importante è riservato alle organizzazioni sindacali senza la quali le ipotesi dei contratti collettivi non potrebbero esistere.

Altra critica, più fondata a mio parere, paventerebbe una violazione della direttiva comunitaria nella parte in cui chiede agli Stati membri di introdurre misure volte a evitare o ridurre l’abuso derivante dalla successione dai contratti a tempo determinato. Con il rischio che questa norma di interpretazione autentica possa essere così spedita dai giudici (gli stessi di cui sopra) alla Corte di Giustizia UE per chiederne un giudizio di conformità con la direttiva (ma i giudici, lo sappiamo, potrebbero pure disapplicare la norma italiana senza troppi giri di parole e richieste di giudizi di conformità vari ed eventuali).


Se mi avete seguito fin qui, in un percorso che mi rendo conto è stato abbastanza tortuoso tra leggi, DPR, contratti collettivi, giudici, corti e tribunali, vi chiedo: ma non sarebbe stato tutto più semplice e lineare, se il Governo, invece di pensare a nuove norme (tra l’altro complesse come lo sono quelle di interpretazione autentica), avesse provveduto, per il tramite del Ministero del Lavoro e previo coinvolgimento delle associazioni sindacali e datoriali, a emanare il decreto ministeriale che è atteso da anni? In aggiunta – o magari in sostituzione – alla spiumatura della tiffa avremmo così attività stagionali in linea con l’Italia del ventunesimo secolo e più certe sul piano della tenuta giuridica e della certezza del diritto.


Troppo semplice?

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