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  • Andrea Morzenti

Gleno, unodicembre1923



In ricordo di quel primo dicembre del 23.


Il mio ricordo, tra mille ricordi (tra cui l'immagine in copertina)

Uno dei miei post più letti, del 29 agosto 2017.


[nel bel mezzo della discussione tra direttori, parlamentari, blog, padre e figlio (ah, tra Boldrini e Feltri io sto tutta la vita con Feltri, Mattia) questo pezzo lo scrissi con mio papà]

 

È il 1 dicembre del 1923, un sabato, la mattina presto, molto presto.

Sono le 7.15. La diga del Gleno crolla. Sei milioni di metri cubi d'acqua si riversano a valle. Acqua e macerie. Case distrutte, morti. Massaie che stavano pensando a cosa mettere nella pentola sulla stufa, per il pranzo. Uomini che facevano colazione e si organizzavano per il lavoro. Bambini che preparavano i loro quaderni per andare a scuola. Famiglie distrutte nella loro quotidiana intimità della mattina.

Musica, silenzio, un mazzo di fiori, il segno della croce.

È il passaggio più toccante, più commuovente, dell'intenso monologo che Emanuele Turelli ha riproposto domenica 27 agosto 2017, alla piana del Gleno, a cento anni da quel 1917, anno di inizio della costruzione della diga del Gleno. Assieme a lui, molti artisti, tra cui Tiziano Incani (il Bepi) che ha intervallato il monologo con canzoni del suo repertorio, tra cui la bellissima "Gleno" da lui scritta nel 2009 per ricordare il disastro.

Già, perché qui in Val di Scalve, nella mia valle, l'han sempre chiamato così: "il disastro del Gleno". E, addirittura, dividono il tempo in: prima del disastro, dopo il disastro. Oltre quattrocento morti tra Val di Scalve (Bergamo) e Val Camonica (Brescia). Un evento che non trova spazio nei libri di storia.

Eravamo in oltre millecinquecento a sentire Turelli e il Bepi. Un evento durato più di un'ora e mezza. Proprio lì, sotto i resti della diga del Gleno. Un pubblico composto che ha seguito tutto lo spettacolo in un silenzio toccante. Alla fine, tutti in piedi ad applaudire con gli occhi lucidi. E a dire il nostro grazie a questi artisti che hanno voluto ricordare, per non dimenticare, quanto accaduto quasi cento anni fa. Teatro civico.

Turelli ricorda però: "non un disastro, ma una follia". Tanti gli aspetti che lasciano più di un interrogativo:

  • le perdite della diga, ci sono sempre state. Sempre. Era un "muro colabrodo";

  • due progetti diversi, opera dei due ingegneri che si sono succeduti, fusi in uno unico. Prima a gravità (il tampone), poi ad archi multipli (la parte superiore). Caso unico al mondo. Un po' come camminare con "una scarpa e ü süpel (uno zoccolo)";

  • i materiali utilizzati per la costruzione della diga: fieno, fascine di legno, filo spinato arrugginito. Ma la fiaba dei tre porcellini, non ha insegnato proprio niente?

  • l'assenza di un progetto esecutivo, complessivo, avallato nella sua interezza da chi di dovere.

Altro che bomba o sabotaggio! [Unico riferimento che fa Turelli, non polemico, ma chiaro, netto e diretto, alla ricostruzione, diciamo così, fantasiosa, fatta propria dall'avvocato Bonomo nel suo recentissimo libro]

Ma l'idea del profitto, ad ogni costo.

Per i costruttori della diga, per i titolari della concessione, la Fraternita Viganò di Ponte Albiate Triuggio (Milano), l'invaso del Gleno rappresentava la cassaforte di famiglia. Sei milioni di metri cubi d'acqua. Energia, tanta energia. Per i propri stabilimenti di tessitura. E l'energia elettrica in eccesso, pronta da rivendere alla Società Elettrica Bresciana.

Virgilio Viganò era un uomo potente.

E pagava bene. In val di Scalve il lavoro mancava. Gente umile, ma non certo stupida. Tutti sapevano, delle perdite e del materiale scadente utilizzato per costruire la diga. Ma c'era paura a parlarne, perché si rischiava di perdere il lavoro, in condizioni sì al limite, ma pur sempre un lavoro, che consentiva di poter avere la cena per sé e per la propria famiglia. Ci sono state denunce. Scritti al Genio Civile e ai Ministeri competenti. Ma, nonostante ciò, la diga fu terminata; e poi subito crollata. Oltre quattrocento morti. La cassaforte di famiglia, appena riempita, completamente svuotata.

Si salvò un bimbo. Era di Dezzo di Scalve. Lo trovarono a Boario, nel fiume ingrossato dall'acqua della diga. Che galleggiava nella sua culla. Non aveva più mamma e papà. Lo salvarono e lo chiamarono Mosè. È vissuto fino a pochi anni fa.

Questo post non parla di lavoro, non parla di politica. Ma della storia della mia valle. E l'ho scritto con mio papà.


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Ciao Elli

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